La sconfitta di Perry Mason

Perry Mason, ve lo ricordate? No, forse no. Se non avete superato gli anta è difficile che ne sappiate qualcosa. I telefilm di Perry Mason arrivarono nel nostro paese a metà degli anni cinquanta o giù di lì. Perry Mason era il prototipo dell’avvocato made in USA. Paladino della giustizia e degli innocenti, accettava i casi più disperati e, grazie al suo acume, alla sua intelligenza e al suo amore per la legge e la giustizia, riusciva sempre, alla fine, a far trionfare la verità. In quei tempi, anche nel nostro paese, più o meno, l’immagine dell’avvocato che ancora resisteva nell’ “immaginario collettivo” era pressappoco questa. E l’italiano medio si appassionava al caso Fenaroli, e il paese era diviso fra colpevolisti e innocentisti. E oggi? Oggi, nel nostro paese, Perry Mason sarebbe quello che comunemente si definisce “uno sfigato”. Magari tutti gli riconoscerebbero i suoi meriti, gli si concederebbe perfino qualche apparizione tv ogni tre, quattro anni, ma niente di più.

Due esseri viventi trentenni hanno ucciso, in questi giorni, un ragazzo di ventuno anni, per un motivo terrificante: per sapere cosa si prova a uccidere. Come faccio a scrivere un articolo, in questi giorni, e parlare di altro? E’ impossibile.
Probabilmente non esiste e non esisterà mai una società tale, né in Italia, né altrove, per cui queste cose non potrebbero accadere, però… però ogni volta che accadono cose simili, io credo che a molti di noi capiti di soffermarsi, per poco o tanto, sull’eterno problema dei “valori” e dei “modelli”. I valori cambiano, e cambiano in base ai modelli che scegliamo. O viceversa, come preferite.
Oggi, per limitarci agli avvocati, Perry Mason, se avesse interesse a diventare un grande avvocato, famoso e ammirato, dovrebbe scegliersi una clientela diversa. Dovrebbe difendere e far assolvere politici famosi di chiara matrice mafiosa. Dovrebbe difendere e far assolvere, o comunque evitare la galera, a vecchi miliardari puttanieri, intrallazzatori e così via. Perché il modello di avvocato vincente è cambiato. E, conseguentemente, sono cambiati i “valori”. O viceversa, come preferite.
Ci ho pensato non poco, prima di decidermi se scrivere di queste cose. Innanzitutto perché ne ho già scritto altrove. E poi perché, nel nostro paese, non è mai prudente parlar male di categorie, lobby, ordini e così via. Poi mi sono detto che, a voler essere ottimisti, si e no un centinaio di persone legge le cose che scrivo e quindi il rischio è ridotto praticamente a zero. E poi… e poi ascoltavo il tg2 delle diciotto. E ho ascoltato l’intervista all’avvocato difensore di uno dei due esseri viventi che hanno ucciso quel ragazzo. L’intervistatore gli ha chiesto se aveva intenzione di richiedere, come è ovvio che farebbe un avvocato in un caso simile, la perizia psichiatrica per il suo assistito e, rispondendo, questo avvocato ha sintetizzato, in una sola frase, tutto il discorso che volevo fare e che ho già fatto altrove.
“…purtroppo il lavoro tecnico dell’avvocato è questo…”
Quel “purtroppo” innanzitutto. Che fa riflettere. E poi, proviamo a chiederci: qual è il “lavoro tecnico” di un avvocato? Far trionfare la giustizia? No. Difendere e-o far rispettare la legge? No. In teoria, ma è pura teoria, ci sono altre istituzioni, altri professionisti delegati a questo. Il lavoro tecnico dell’avvocato è difendere il proprio cliente e-o i suoi interessi e recargli il massimo del vantaggio che la legge e la sua pratica e conoscenza della legge, può procurargli.
E ora, proviamo a cercare di capire, allo stesso modo…
Qual è il “lavoro tecnico” di un commercialista? Assicurarsi che i suoi clienti paghino tutte le tasse che dovrebbero? O forse che le operazioni finanziarie del suo cliente imprenditore siano tutte lecite? No. In teoria, ma è pura teoria, ci sono altre istituzioni, altri professionisti delegati a questo. Il lavoro tecnico del commercialista è curare gli interessi del proprio cliente e, come per l’avvocato, recargli il massimo del vantaggio che la legge e la sua pratica e conoscenza della legge, può procurargli.

Una cosa del genere, ascoltando la tv, mi è capitata una decina di anni fa, non ricordo con precisione. Due fidanzatini, poco più che adolescenti, massacrarono la mamma e il fratellino di lei, a coltellate mi pare. Lui si chiamava Omar, lei Erika. In Liguria, da quelle parti. Solito caravanserraglio degli avvoltoi dell’informazione: speciali, approfondimenti, ricostruzioni, plastici, dibattiti e così via. : “Il problema è che dobbiamo dare valori ai giovani!”. Quasi mi veniva un colpo! Sì, ve lo giuro, proprio così! Perché un conto è se un luogo comune, una frase fatta, una fesseria standard, la senti al bar sport, da qualche opinionista un tanto al chilo in tv o sul giornalino della parrocchia. Tutt’altra cosa è se quella frase, testuale, la dice un filosofo! Vi giuro che sono rimasto di sasso. Ma è durata poco, poi me la sono spiegata. Sì, perché quel filosofo, che insegna nelle nostre università, è anche un politico. All’epoca un politico di primo piano nel partito cattolico di riferimento, oggi notevolmente ridimensionato, ma comunque un politico di primo piano.
Avete presente Pirandello… Il berretto a sonagli… Eduardo?
Quando un filosofo è anche politico, deve continuamente aprire e chiudere l’interruttore. E deve o dovrebbe, continuamente, ricordarsi di non fare politica quando fa il filosofo e viceversa. Per un attimo pensai a lui come al Filosofo, che insegna filosofia nelle nostre Università, e quasi mi prendeva un colpo. Ma subito dopo realizzai che stava parlando il politico. E allora tutto tornava. Meno male. E’ incredibile come senti la stessa cazzata da una vita e nemmeno ci fai più caso. Poi la ripete un intellettuale e resti impietrito. Ma l’errore era stato mio. Non era il Filosofo che stava dicendo quella cazzata. Era l’Onorevole.

Il problema è che i valori non si danno. Non si possono “dare”. Ognuno se li sceglie da solo. Che sia un bambino di cinque anni, che sia un ragazzo di venti o un adulto di cinquanta, ognuno se li sceglie da solo i suoi valori. Spesso senza nemmeno saperlo, deciderlo coscientemente. Come se li sceglie? Semplicemente guardandosi intorno, in base all’esperienza, all’ambiente che lo circonda, agli esempi che ha a disposizione e così via. Solo così si può spiegare come, all’interno di una stessa famiglia, due o più fratelli possano avere “valori” completamente diversi. O come da una famiglia di magistrati possa venir fuori un figlio terrorista o da una famiglia di onesti operai possa venir fuori un figlio rapinatore. E così via.
V’immaginate che pacchia sarebbe se bastasse fare una bella pappardella sull’onestà, la morale, il rispetto eccetera, ogni tanto a vostro figlio, per essere sicuro di tirarlo su come volete? Magari bastasse portarlo in Chiesa tutte le domeniche, per farne un bravo Cristiano!

Ecco, adesso possiamo tornare al “lavoro tecnico” del nostro bravo avvocato. Immaginate un bravo imprenditore, che si vuole organizzare un bel fallimento per fregare fornitori, operai, fisco e così via. Ai tempi di Perry Mason, qualche decennio prima magari, c’era chi si suicidava per una cambiale non pagata, o per un fallimento. Oggi, se ti organizzi il tuo bravo fallimento e riesci a fregare tutti, sei uno in gamba, uno che ci sa fare. Una condanna per corruzione, concussione, peculato o altro è quasi un titolo di merito. Significa che hai gli agganci giusti, che sei negli ambienti giusti, che ci sai fare. E allora torniamo al nostro bravo imprenditore. Cosa gli occorre, innanzitutto, se vuole organizzare un bel fallimento per fregare tutti? Innanzitutto un bravo commercialista e un bravo avvocato.

Probabilmente, quel bravo imprenditore, quel bravo avvocato, quel bravo commercialista, hanno dei figli. Che vogliono crescere nel migliore dei modi. E probabilmente, a sera, quando tornano a casa, di quando in quando gli fanno una bella pappardella sulla nobiltà del lavoro, sull’onestà, sulla morale, sui principi e tutte quelle belle cose lì. E sentono di aver fatto il loro dovere, come genitori. Hanno fatto tutto il loro dovere, come genitori. Gli hanno anche mostrato la bellezza dell’impegno perché, pur essendo impegnatissimi nella loro professione, trovano anche il tempo di impegnarsi a difesa della famiglia naturale, dei diritti dei bambini, della dignità delle donne e tutte quelle belle cose lì. E anche dal punto di vista materiale, non difettano in niente. Firmati dalle mutande ai giubbotti, una o più case calde, ampie, accoglienti a disposizione. E poi il viaggio studio, il viaggio premio nella grande mela, le vacanze, la piscina, la macchina e così via. Dall’età di cinque anni, quando cominciano a stressarsi, sempre di corsa, per portarli a nuoto, alla scuola di ballo, a calcio, al corso di chitarra, o di scacchi o di chissà cosa. E poi qualche corso d’inglese, e poi alle feste di compleanno degli amichetti, e poi a dottrina per la comunione e poi… e poi il motorino e poi finalmente la macchina e, finalmente, sono indipendenti. In tutti questi anni, tranne per la solita pappardella periodica sull’onestà, sui valori e così via, nemmeno si sono conosciuti. Perché il tempo e i soldi sono valori inversamente proporzionali. All’aumentare dell’uno diminuisce l’altro. Si tratta di scelte. Puoi impiegare il tuo tempo per educare tuo figlio, per fargli capire che avere le mutande firmate non lo rende per questo migliore degli altri, o per fargli capire che anche se le sue mutande non sono firmate, lui vale comunque come e forse più degli altri. E cose di questo tipo. Ma per fare questo ci vuole tempo. E se dedichi troppo tempo per educare tuo figlio, per stare con lui, per parlargli, per capirlo, per “conoscerlo”, non hai tempo a sufficienza per fare soldi, per fare tutti i soldi che ti servono per le mutande firmate e tutto il resto. E’ questione di scelte. Oggi quella che prevale è la scelta dei soldi. E non c’è tempo per educare, per “conoscere” i propri figli. E il risultato è che dopo trent’anni ti ritrovi in casa un essere vivente che non conosci, e che uccide un ragazzo di ventuno anni “per sapere cosa si prova a uccidere”.

AUGUSTO NOVALI

L’uomo qualunque, il capopopolo, il demagogo.

Il 2 giugno 1946 si tengono le elezioni nazionali per l’Assemblea Costituente. Il Fronte dell’Uomo qualunque manda all’Assemblea costituente 30 deputati, diventando il quinto partito nazionale.
Nel giorno di apertura del congresso, il Partito Comunista Italiano critica fortemente la costituzione del nuovo partito, bollandolo come un tentativo di ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista:
« L’Uomo qualunque è un movimento che costituisce al tempo stesso una sopravvivenza e un’anticipazione del fascismo … i suoi dirigenti … sono tristi speculatori delle sventure d’Italia, torbidi giocolieri che tentano di riesumare il fascismo vestendolo da pagliaccio »
(Velio Spano, L’Unità, 16 febbraio 1946).
Sarà un caso se oggi uno dei maggiori partiti del nostro paese è guidato da un comico? No, non è un caso. E’ uno di quei corsi e ricorsi storici di vichiana memoria che, periodicamente, appaiono nella vita politica delle nazioni. E dico “partito” perché è tale nella realtà. Ognuno può decidere liberamente come definirsi: gruppo, movimento, federazione, partito. Ma come ti definisci non cambia la sostanza di quello che sei. E se siedi in parlamento, con il tuo nutrito gruppo di senatori e deputati di fatto sei un partito. Sembrerebbe un problema di lana caprina ma invece è un problema importante. Quando partecipi alla vita pubblica nelle istituzioni è importante sapere a che titolo ne partecipi. Oggi viviamo il paradosso per il quale gruppi, movimenti, associazioni e quant’altro, sotto le più varie, fantasiose e spesso fasulle sigle, condizionano pesantemente il dibattito parlamentare sulle unioni civili, comportandosi, di fatto, come veri e propri partiti. E quelli che sarebbero, in teoria, gli unici a dover legiferare, i partiti presenti in parlamento… studiano i più variegati e fantasiosi stratagemmi per sfuggire alle proprie responsabilità. Deprimente, vero?

Gugliemo Giannini, chi era costui? Per la serie corsi e ricorsi storici, Giannini non era un comico ma… era un commediografo. Non era così esplicito e pregnante da usare slogan tipo “vaffa…” ma era della stessa specie, e il motto della rivista e del movimento da lui fondati era: “non ci rompete più le scatole”. E il “Movimento” da lui fondato?: “ Fronte dell’uomo qualunque”. Da quel “Movimento” è nato il termine, oggi abbondantemente usato, “Qualunquismo”. Come oggi (mai niente di nuovo sotto il sole!) quel “Movimento” diventò partito. E, pare quasi che la Storia si accanisca con i suoi corsi e ricorsi, indovinate il maggiore successo elettorale quale fu? Elezioni comunali di Roma del novembre 1946: ottiene oltre 108.000 voti (seimila suffragi in più della Democrazia Cristiana) è secondo soltanto al Blocco popolare, formato da comunisti e socialisti.
Pare che però Giannini, diversamente da oggi, non fu paralizzato dalla paura, accusando gli avversari di aver complottato perché vincesse. Lui non arrivò a tanto, dacché era semplicemente un commediografo e non un comico.

Per continuare le mie riflessioni mi servo ancora di Wikipedia per due definizioni che è importante aggiungere per completare il discorso:
“Il termine qualunquismo, poi rimasto nel lessico politico con evidente accezione negativa, definisce atteggiamenti di sfiducia nelle istituzioni democratiche, di diffidenza e ostilità nei confronti della politica. e del sistema dei partiti, di insensibilità agli interessi generali, che si traducono in opinioni semplicistiche e sostanzialmente conservatrici sui problemi dello stato e del governo”
e ancora:
“Demagogia è un termine di origine greca (composto di demos, “popolo”, e aghein, “trascinare”) che indica un comportamento politico che attraverso false promesse vicine ai desideri del popolo mira ad accaparrarsi il suo favore. Spesso il demagogo fa leva su sentimenti irrazionali e bisogni sociali latenti, alimentando la paura o l’odio nei confronti dell’avversario politico o di minoranze utilizzate come “capro espiatorio” e come “nemico pubblico”, utile alla formazione di un fronte comune, uniformato temporaneamente dalla medesima lotta e dunque scevro di dissenso interno.”
Capro espiatorio… nemico pubblico… per il demagogo di turno è facile trovarne. Oggi, nel nostro paese, è un gioco da ragazzi. Scegli un qualsivoglia governante o dirigente, magari un presidente di regione o, meglio ancora, un sindaco. Magari di una grande città. Magari un sindaco un po’ marziano, estraneo ai palazzi del potere. Sarà come sparare sulla Croce Rossa. Un gioco da ragazzi. Se poi quel marziano non ha nemmeno un partito alle spalle che lo sostiene… perfino la casalinga di Voghera riuscirebbe a buttarlo giù. Il problema è il “dopo”. Dall’antica Grecia ai giorni nostri, i capopopolo e i demagoghi non ci sono mai mancati. Da Masaniello all’Uomo qualunque, ciclicamente ne compare uno. Che sia un gruppo, un movimento o un circolo fancazzista, chiunque può tranquillamente e facilmente denunciare il marcio, invocare sussidi per tutti, blaterare delle sue riforme epocali e così via. E’ un’attività facile, gratificante e che crea consenso. A patto che tu non faccia la fesseria di trasformarti in partito. Perché, a quel punto, una volta buttato giù il bersaglio di turno… corri il rischio di trovarti al suo posto e di farneticare al complotto che ti ha fatto vincere. E quando sarai al posto del bersaglio che hai buttato giù…

Negli anni settanta un manipolo di radicali italiani rivoluzionò questo paese: Faccio, Pannella, Bonino, Spadaccia, Teodori e mi scuso se ne dimentico qualcuno. Meno di una decina di attivisti riuscirono a imporre a un paese ipocrita e bigotto due istituti di civiltà quali il divorzio e l’aborto. Poi… poi capitò quello che succede oggi. Quello che era un movimento diventò un partito. E, come succede oggi, quei quattro deputati che grazie al successo dei referendum approdarono in Parlamento, non avevano chiara la differenza tra un movimento e un partito e i radicali, cominciarono, sull’onda del successo referendario, a ridicolizzare e svilire il ruolo del referendum, promuovendo “lenzuolate” di referendum, ottenendo l’unico risultato di tenere la gente lontano dai seggi. Poi, essendo praticamente insignificanti all’interno del Parlamento, ondeggiarono per anni, alleandosi ora con la destra ora con la sinistra con l’unico risultato di essere sempre più inutili nel panorama politico. E infine, il “salto di qualità” lo pseudo partito transnazionale. Di fatto, oggi, dopo quasi cinquant’anni dai referendum sul divorzio e sull’aborto, se qualcuno ricorda ancora il movimento radicale italiano lo ricorda per quei risultati. Ma sono passati quasi cinquant’anni e… non ci sono altri risultati che valga la pena ricordare o che la gente possa ricordare. E in questi cinquant’anni cosa hanno fatto? Niente. Assolutamente niente perché… perché sono stati in Parlamento essendo un partito, come se fossero un movimento. E la storia si ripete…

In politica i capopopolo, i bersagli da abbattere, le furberie, possono essere utili per creare il consenso, per darti forza. Ma se poi, una volta ottenuto il consenso non sai usarla quella forza… fai solo danni. Il minimo del danno che puoi fare è far perdere tempo al paese. E così oggi una legge la voti solo se resta così com’è. Il giorno dopo la stessa legge la voti solo se si discutono cinquecento emendamenti. Piccole furbate. Piccole miserie umane. Che passeranno. Come sono passati i vari Masaniello, l’uomo qualunque e tutti i demagoghi e i capopopolo di turno. Sono passati e passeranno anche loro. Lasciando, come sempre capita, un paese in ritardo e un sacco di brava gente delusa.

AUGUSTO NOVALI

Perché accanirsi?

Tra le innumerevoli definizioni che si possono dare, e spesso si usano, per definire la politica, io uso spesso quella che definisce la politica come “l’arte del possibile” (con tutti i distinguo e le precisazioni necessarie). Anche io ovviamente, come tutti gli esseri pensanti, ho le mie idee e sono anche sufficientemente interessato a capire e conoscere, nei miei limiti, il mondo che mi circonda e, conseguentemente, ho le mie idee politiche. Idee che, naturalmente, risparmio a che mi legge, dal momento che non è mia intenzione scrivere di politica.
Nonostante tutto, ancora oggi mi capita di seguire in televisione qualche talk show. Ne seguivo tanti, troppi, quando anche in Italia si cominciò a trasmetterne. Poi, come molti di voi sapranno, lentamente questi programmi sono diventati, o una specie di pollaio, nel quale si fa a gara a chi strilla di più per evitare che l’altro possa esprimere le proprie idee, o una specie di vetrina per il conduttore figo o piacione di turno, che in pratica non fa parlare nessuno dei partecipanti, perché li interrompe di continuo e alla fine parla più di tutti, al solo scopo di mostrare quanto è figo o quanto è acuto e via dicendo. Ma sto cercando, troppo lentamente lo ammetto, di disintossicarmi, di guardarne sempre meno e sempre meno spesso. Una delle cose che mi capita di frequente, seguendo questi programmi, è di restare deluso. C’è sempre una domanda o un’obiezione per me così evidente, così importante, che mi aspetto che il conduttore o uno degli ospiti faccia e che non viene fatta. E ogni volta ci resto male. E poiché anche nel dibattito che imperversa in questi giorni sulle unioni civili, c’è una domanda che nessuno fa, approfitto dell’occasione per farla io. Premettendo, necessariamente, che non si tratta di una scelta di campo, né di cercare di portare acqua al mulino di questa o di quella parte. Anche se, inevitabilmente, l’impressione potrà essere quella.
Così come accade oggi, anche all’epoca dei referendum sul divorzio e sull’aborto la preoccupazione di tutti, politici, religiosi, filosofi e sponsor a vario titolo della dottrina cattolica, era la famiglia. L’aborto avrebbe fatto diminuire drasticamente la natalità, le donne avrebbero abortito a tutto spiano e così via. E il divorzio? Sarebbe stata la tomba della famiglia! L’Italia sarebbe diventata una specie di Las Vegas, la gente avrebbe divorziato in tutta allegria, quando il partner che aveva non gli piaceva più e così via. Dopo decenni di rodaggio, oggi possiamo dire, in tutta onestà, che quelle erano autentiche fesserie, terrorismo psicologico o poco meno. E se oggi la famiglia è in crisi, è perché i nostri politici sono perennemente in campagna elettorale, più interessati a far vincere la propria parte, il proprio sponsor, che a risolvere “seriamente” i problemi della gente. Se i matrimoni diminuiscono, questo succede semplicemente perché è in crisi l’economia, il lavoro è sempre poco, i giovani vivono con la pensione dei genitori e oggi sposarsi è un lusso. E non siamo diventati Las Vegas. E se si è reso necessario accorciare i tempi per divorziare, è semplicemente perché divorziare costa più che sposarsi, con i tempi lunghi originariamente previsti. E questo non incoraggia certo a sposarsi. E la riprova che le preoccupazioni dei benemeriti difensori della famiglia erano tutte infondate e interessate, sta nel fatto che, una volta approvate quelle leggi, anche i “diversamente cattolici” ne hanno beneficiato ampiamente. Non posso dire sull’aborto perché, ovviamente, sono dati che non conosciamo. Ma sul divorzio sì. Inutile precisare (ma è necessario farlo) che quando uso la definizione “diversamente cattolici” mi riferisco a tutti i tipi di cattolici (cattolici della domenica, cattolici di partito, cattolici di comodo e, ovviamente, chi più ne ha più ne metta.). Va da se che non mi riferisco ai sinceri cattolici che, lo consenta o no la legge, comunque non divorzierebbero o abortirebbero. Ma tutti gli altri sì. Anche quelli che erano strenuamente contrari al divorzio. Anche gli esponenti del vecchio partito cattolico di riferimento, ormai sparito da anni. Ne hanno beneficiato ampiamente e con tanta disinvoltura tutti, anche i benemeriti difensori della Santa Fede, anche ai massimi livelli. Uno di questi benemeriti, strenuo difensore della famiglia, fieramente contrario al divorzio, all’aborto e, presumo, oggi fieramente contrario alle unioni civili, che ha fatto la sua fortuna politica nel vecchio partito cattolico di riferimento, ne ha beneficiato e, sposato e con figli ha poi divorziato e risposato e messo al mondo altri figli. Bene, non ci crederete: abbiamo corso seriamente il rischio di ritrovarcelo Presidente della Repubblica. E non è detto che non succeda, prima o poi!

Una delle obiezioni che, durante la campagna referendaria per il divorzio, i benemeriti difensori della famiglia si sentivano fare spesso, era: “Ma se la vostra preoccupazione sono anche i bambini e il loro diritto ad avere una famiglia, perché non vi date da fare per aiutare le coppie che, non potendo avere figli, ne vorrebbero adottare uno e invece non ci riescono?” Tentare di adottare un bambino era un autentico calvario. A questa obiezione, i benemeriti difensori della famiglia, rispondevano come si usava allora, e si usa ancora oggi: “Certo, questo è un grande problema che poi, una volta passato il referendum, risolveremo.” Il “benaltrismo” per capirci. In quegli anni un mio cugino cominciò la sua corsa a ostacoli per adottare un bambino. Ci riuscì. Adottando un bambino di un paese dell’est, spendendo una decina di milioni di lire e affrontando nove anni di viaggi, pratiche, richieste, visti, pareri e tutto quello che chi conosce questi problemi sa.
La voglia di scrivere questo articolo mi è venuta quando sono andato a fare gli auguri per il nuovo anno a una mia collega di lavoro, che non vedevo da un po’ di tempo. Oggi ha quarant’anni, ma quando ha cominciato la sua corsa a ostacoli ne aveva trenta. Due giovani, due stipendi (uno dei quali statale), gente da oratorio, una coppia esemplare, senza grilli per la testa. L’unica cosa che gli manca è un figlio. Che lei non può avere. Le ho chiesto come andavano le pratiche per l’adozione. I suoi occhi si sono velati di lacrime, mentre mi rispondeva: “Che vuoi che ti dica, ormai siamo stanchi e sfiduciati, dopo dieci anni… “ Sì, perché quando ha cominciato la sua corsa a ostacoli ne aveva trenta. E ancora non è finita.
Quando si affrontano certi argomenti che hanno a che fare con la politica, succede come le ciliegie: una tira l’altra. Ma posso fermarmi qui, visto che non mi piace scrivere di politica. Era necessario per chiarire e introdurre la mia riflessione. I grandi temi, quelli che coinvolgono tutti, che mettono a confronto idee, o meglio, ideologie diverse, rarissimamente nascono così, di punto in bianco. Possiamo agevolmente dire che non nascono mai da un giorno all’altro. E questo vale sia per l’aborto, sia per il divorzio, le unioni civili, l’eutanasia e così via. I grandi temi etici, come questi, hanno una caratteristica in comune: sono o possono diventare un problema, solo per i poveri o, comunque, per chi non ha buone disponibilità economiche. Se avevi soldi, potevi abortire anche prima della legge che permette il divorzio. Te ne andavi nella tua bella clinica privata e un bravo medico che ti praticasse l’aborto c’era sempre. Se non avevi soldi, invece, dovevi rischiare e affidarti a una mammana. Per la verità, la situazione è la stessa, meno grave, ancora oggi. Se hai soldi per una clinica privata non devi elemosinare il tuo diritto, negato dai troppi medici “Obiettori di coscienza” degli ospedali pubblici. Ma questo è un altro discorso. Anche prima che la legge permettesse il divorzio, se avevi soldi, potevi divorziare: c’era la Sacra Rota se proprio volevi risposarti in chiesa, o te ne andavi all’estero e ti sposavi o divorziavi e ti risposavi. Ovviamente, anche se non avevi soldi, avevi diverse alternative, la migliore delle quali era rassegnarsi e vivere infelice per tutta la vita. E anche per le leggi che ancora non ci sono ma che prima o poi arriveranno, il problema è solo per chi non ha soldi. Quando arriverà una legge che permette di morire dignitosamente, ovviamente nessun sincero credente sarà costretto ad affrettare la sua morte. Ma darà a tutti la possibilità che oggi ha solo chi ha soldi disponibili. Oggi, per chi decide di morire dignitosamente e non diventare un corpo ostaggio dei medici, della famiglia, della parrocchia o chissà chi altri, c’è la possibilità di fare un viaggio, (nemmeno tanto lungo, basta arrivare in Svizzera) e con più o meno quattromila euro morire dignitosamente e assistito fino all’ultimo momento, in una clinica. Nel dibattito di oggi sulle unioni civili, viene introdotto l’argomento dell’utero in affitto. In Italia questo non è possibile e sono tante le leggi che, per un motivo o per un altro, lo rendono impossibile. Ovviamente già adesso però è possibile avere un figlio in questo modo. Basta avere soldi a sufficienza. Te ne vai all’estero senza figli e torni, dopo un po’ di tempo, con un figlio, regolarmente registrato all’anagrafe di un altro paese e così diventi, anche in Italia, papà a tutti gli effetti. Semplice, no?
E’ sicuro, è inevitabile che, quando sarà “possibile”, avremo anche noi, come sempre quasi ultimi nel mondo occidentale, una legge decente sulle unioni civili. Chiunque ha un minimo di buon senso lo sa. E’ un fatto di tempo, ma è inevitabile e di questo sono coscienti tutti, compresa la Chiesa, i sinceri cattolici e i “diversamente cattolici.” E allora qual è il problema? Ecco, io mi sono posto un problema, e ci penso di continuo. E vorrei che anche chi mi legge ci pensasse. Di divorzio e di aborto, dicevo, non sì è cominciato a parlare da un giorno all’altro. Da quando il problema è stato posto decisamente, in termini politici, al giorno in cui l’aborto è stato possibile, quanto tempo sarà passato? Cinque, dieci, vent’anni? Ancor prima che la possibilità di abortire diventasse legge, quanti antiabortisti, ad un certo punto, si sono resi conto che era una battaglia insostenibile e che prima o poi sarebbe stata persa? Quando lo hanno capito? Un anno, due anni, dieci anni prima? E quando lo hanno capito gli antidivorzisti che il divorzio, nonostante la loro contrarietà, sarebbe comunque diventato possibile? Un anno, due anni, dieci anni prima? Bene, che sia uno, che siano due, che siano dieci anni, tutte le ragazze, le donne che in quel periodo sono morte sui tavoli delle mammane, o da sole, cercando di procurarsi un aborto, perché sono morte? E tutte le tragedie familiari fatte di mogli picchiate, di figli maltrattati, di suicidi in quell’uno, due o dieci anni… perché è successo? Qualche anno fa è morto un famoso cantante che aveva un compagno. Un compagno di vita da più di vent’anni. Lui era il suo compagno e la sua famiglia. Ma la legge sulle unioni civili ancora non c’è. E lui, appena è morto il suo compagno, è stato buttato fuori dalla sua “famiglia” che, ovviamente, non ha nemmeno pensato di parlare di eredità, con lui. Tra un anno, due, dieci, ci sarà una legge sulle unioni civili. Piaccia o non piaccia ai diversamente cattolici, ma anche ai cattolici e alla Chiesa. E quando la legge ci sarà, quella persona si dirà: “Sono stato sfortunato, se quella legge fosse arrivata uno, due, dieci anni prima!” Così come molte mamme di ragazze morte per un aborto clandestino, si saranno dette: “Mia figlia è stata sfortunata, se quella legge fosse arrivata uno, due, dieci anni prima!” E lo stesso vale per il divorzio e per l’eutanasia. Quando ti rendi conto che la tua battaglia è persa, è umano continuare a vedere morire la gente, o rovinargli la vita, in nome dei “tuoi” valori? Ovviamente la mia domanda non la pongo ai “diversamente cattolici”. Loro hanno altri interessi da tutelare.

AUGUSTO NOVALI

Sul fanatismo e sull’intolleranza.

Immaginate di essere al ristorante e, mentre state per addentare il vostro pezzetto di tagliata di manzo, un tipo un po’ stralunato, vi apostrofi così:

“Ma che fai? Ma che sei scemo? Mangi una tagliata di manzo? Ma scusa, tu hai mai visto un manzo mangiare una tagliata di uomo? Bisogna avere rispetto per gli animali!” Lo so, detta così sembra un po’ surreale. Ma accade nella realtà. Imperversa da mesi sulle radio rai, promosso da non so quale ministero, a spese dei contribuenti, e quindi mie e anche vostre, lo spot di Frassica: “…ma che fai? Fumi vicino a un cane? Ma tu hai mai visto un cane…” eccetera. E allora uno potrebbe chiedersi: qual è la differenza e perché non si può fumare vicino a un cane o a qualsiasi altro animale, ma si può mangiare tranquillamente una tagliata di manzo? La differenza, detta in soldoni, è che la confraternita animalista ancora non è abbastanza forte e potente come la confraternita delle anime belle antifumo. Ma siate fiduciosi: quando anche il verbo animalista diventerà più forte, ci arriveremo.

Mentre ero intento a scrivere questo articolo, giusto per rilassarmi un po’, il telegiornale mi informava che a Rennes, in Francia, una persona è morta a causa di un farmaco sperimentale, un antidolorifico, per la precisione. Avevano accettato  in cinque, di fare da cavia per questo nuovo farmaco. Uno è morto, per altri tre non ci sono speranze. E allora…

Immaginate di soffrire da giorni di un acuto dolore in qualche parte del vostro corpo e di rivolgervi al vostro medico di fiducia, il quale, molto probabilmente, vi prescriverà un antidolorifico. Immaginate poi che, al momento di assumere questo medicinale, vi accorgete che sulla scatola è scritto, in bella evidenza: “Non testato su animali.”  Questa cosa vi rassicurerebbe o vi preoccuperebbe?

Quando vado al supermercato, spesso mi capita di leggere, sulle confezioni di prodotti cosmetici: “Non testato su animali.” e ogni volta mi capita di pensare che, delle due l’una: o quel prodotto non è testato per niente o quel prodotto viene testato direttamente sulle persone. Nessuna delle due ipotesi è piacevole. Eppure… Eppure la confraternita delle anime belle animaliste è così potente che, grazie al mercato, quello che dovrebbe essere un fattore di perplessità e/o di preoccupazione, diventa un elemento di promozione del prodotto. Questo perché succede? Perché l’anima bella nemmeno se le pone queste domande. Ma io mi sono posto questa domanda: “Perché le anime belle non se le pongono queste domande? E come queste tante altre che dovrebbero porsi e che sono altrettante valide obiezioni al loro fanatismo?”  E, ovviamente, nella domanda c’è anche la risposta. Sono andato su Internet e mi sono rassicurato sulla esattezza della definizione sulla quale, sostanzialmente, convengono i diversi dizionari etimologici presenti nel web e quella che riporto è la più semplice e condivisibile. Ho cercato il significato della parola “Fanatismo”. Parola che uso, mi preme chiarirlo, nel senso che gli è proprio, così come si ricava dalla definizione e non nel senso offensivo o dispregiativo che spesso si da a quel termine.

  1. esasperazione di un sentimento religioso o fede politica, filosofica ecc., che porta all’intolleranza e al settarismo
  2. ammirazione cieca e incondizionata per qualcuno o qualcosa | manifestazione di entusiasmo esagerato, di cieca ammirazione

Da sempre, è il fanatismo che porta agli eccessi e ai lutti della storia. E’ stato così con l’inquisizione che ha bruciato vivi migliaia di individui per salvargli l’anima. E’ stato così con il comunismo che ha offeso la dignità dell’individuo in forza dell’applicazione  distorta di un’idea che, in se, poteva anche essere condivisibile. Ed è stato così con il fascismo e così via, fino all’idea di libero mercato di oggi, che ha portato nelle mani di una decina di individui, il potere di stabilire il prezzo del grano a livello mondiale e decidere quali e quante nazioni affamare. E così con il prezzo del petrolio e i derivati e le speculazioni e così via.

 

Devo confessarlo: io sono quello che oggi si definisce “un pantofolaio”. Se ne avessi la possibilità, se avessi una casa grande, calda, con un bel camino e una sala per accogliere amici, e discorrere piacevolmente dei massimi sistemi, per quello che mi riguarda mi chiuderei in casa alla fine di ottobre, e ne uscirei ai primi tepori primaverili. Ma accetto tranquillamente che, al mondo, esistano persone con una visione e-o con dei gusti, delle esigenze, estremamente diversi dalle mie. Ma non li condanno o li guardo schifati, né cerco di convertirli ai miei modelli. Al massimo mi diverto a prenderli per i fondelli. Ho un caro amico, appassionato della neve, dello sci e della montagna. E ogni volta che mi parla della sua spedizione, del fine settimana, ormai lo conosce a memoria, gli faccio sempre il solito discorso:

“Ma insomma, l’umanità ha impiegato almeno diecimila anni per costruirsi case confortevoli, inventare l’energia elettrica, gli impianti di riscaldamento, il pc, la televisione e tutto il resto, e tu che fai? Te ne vai con le ciaspole, a camminare sulla neve, al freddo e al gelo e dici che ti diverti? Mah!” Ecco, io la penso così. Ma non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello di insufflargli i cosiddetti con le mie prediche e guardarlo schifato perché se ne va in montagna a guastare l’ecosistema, o cercare di farlo sentire in colpa perché poi, se cade in un crepaccio, anche io in quanto contribuente, dovrò pagare il soccorso che sarà necessario per pagare il suo salvataggio.

La vita, grosso modo, scorre più o meno sugli stessi binari, per tutti. Chi è che non conosce o ha mai conosciuto, una persona anziana che, rimasta sola, riversa tutto il suo affetto su un cane, o sulla sua casa, o fa volontariato. Personalmente conosco decine di giovani e adulti che, in maniera encomiabile, spesso commovente, si danno da fare per aiutare gli altri, per ripulire là dove le persone lasciano un disastro, per assistere i bisognosi, per combattere contro la povertà, il degrado dell’ambiente e così via. E li ammiro e sono una delle poche speranze che ci restano per un futuro che nessuno può immaginare, ma verso il quale molti, me compreso, hanno qualche timore. Ma queste non sono anime belle. Sono semplicemente persone straordinarie. Che hanno rispetto per l’umanità, per le persone e che nemmeno lontanamente si sognerebbero di guardarti con aria di biasimo, perché te ne vai per strada fumandoti beatamente la tua sigaretta. Quanti di voi avranno letto, da qualche parte, in un giardino, in un parco o nelle aiuole di un condominio, un cartello simile a quello che c’è in un piccolo pezzo di prato, fuori da un condominio poco distante dal mio: “Se vedi un m…. di cane in questo prato è perché quel cane ha un padrone di m….”

 

Vivo in un paesino di poco più di ventimila abitanti che, fino a pochi anni fa, aveva il suo ospedale. Poi, chissà come, chi e perché, si è deciso di costruire un nuovo ospedale megagalattico che serve una ventina di comuni del territorio. Più o meno, almeno centomila utenti. Tutte le specialità, tutti i servizi eccetera. Una costruzione imponente, in aperta campagna con, ai lati del fabbricato, un parcheggio enorme, che confina con la campagna. Dall’ingresso alla fine del parcheggio saranno almeno duecento metri. Sicuramente tra i responsabili di questa struttura c’è qualche anima bella. Davanti all’ingresso dell’ospedale e davanti all’ingresso del pronto soccorso, esistono gli unici due punti riservati ai fumatori. Una pensilina in plexiglass di un metro per un metro sotto la quale, se piove, trovano posto non più di tre persone. Qualche anno fa, in visita ad un amico in ospedale, scendendo dalla mia auto, ho assistito ad una scena, per me, irritante. Nello stesso momento scendeva dalla sua auto un altro signore che, appena sceso dalla sua macchina si fermò e, appoggiato alla portiera, si accese la sua brava sigaretta. Non l’avesse mai fatto! Un’anima bella che passava di là lo apostrofò in modo aggressivo: “Signore, lo sa che qui non si può fumare?!” Il poveraccio cercò di spiegargli che era all’aperto, lontano almeno cento metri dall’ingresso, ma non ci fu niente da fare: “Ci sono cartelli dappertutto. Non si può fumare in tutte le pertinenze dell’ospedale, nemmeno all’aperto. Se vuole fumare deve farlo là!” e, con il braccio teso per indicargli il ghetto nel quale era condannato, con un’espressione di disgusto, gl’indicò la piazzola ad un centinaio di metri, proprio davanti all’ingresso dell’ospedale.

Dopo la costruzione del nuovo ospedale, almeno due ospedali di grandi dimensioni, più una decina di piccoli, sono stati chiusi. Chiusi nel senso che i servizi ospedalieri sono tutti accorpati in quello nuovo. Ma nessuna delle strutture che li ospitava è chiusa. Il mio vecchio ospedale (cinque piani) ospita sparuti uffici e servizi. Così l’altro grande ospedale preesistente, dieci chilometri più distante (otto piani) ospita chissà che o chissà cosa. Otto piani di ospedale riscaldati per pochi ambulatori. Decine di strutture, in decine di paesi e paeselli, che sono state rese praticamente inutili, continuano ad essere aperte, con spreco di personale, di riscaldamenti, di energia elettrica e quant’altro. Morale della favola? Trovatela da soli. Io mi limito a constatare che è sicuramente più facile combattere il fumo rompendo l’anima a chi fuma (e per questo, qualunque caporale o anima bella è autorizzato a farlo) che combattere il monopolio di stato, la Philip Morris e quelli che il fumo lo vendono e, di conseguenza, lo incoraggiano. Questo è più difficile e pericoloso. E chissenefrega se gli ospedali in disuso continuano a sprecare risorse, inquinare l’ambiente con riscaldamenti che vanno sempre? Che fai, protesti con il Sindaco o con le ASL o con i Ministeri? Troppo impegnativa come battaglia. Te ne vai davanti a qualche fabbrica che inquina, chiedendo di chiuderla o adeguarla? Ti ritroveresti contro tutti i poveracci che ci lavorano e le loro famiglie. E allora, se proprio vuoi sentirti un cittadino esemplare, un ispirato, un’anima bella insomma, rompi i cosiddetti al poveraccio di turno, che magari sfoga la sua tensione, i suoi problemi, fumandosi la sua brava sigaretta a cento metri dall’ingresso e non nella piazzola a lui riservata. Tutto più semplice e… gratificante.

 

Una delle caratteristiche proprie di ogni dittatura è la diffusione di quello che definisco il “potere impotente”. In tutte le dittature il potere, per definizione, è racchiuso in poche, pochissime mani. Ma i regimi organizzano la società in modo da dare l’idea che tutti abbiano potere. Dal duce al prefetto, giù fino al podestà, al capo quartiere, al capo palazzo.  O al segretario del partito, al comitato centrale, ai comitati provinciali e alle cellule di quartiere e così via. Quasi tutti hanno potere su qualcuno. E ognuno si sente investito di quell’aura di eletto, sia che difenda la purezza della razza, la dittatura del proletariato o difenda l’ecosistema, compresa la paperella dell’Honduras. Che, mi spiace dirlo, non ha i miei stessi diritti. Come non li ha lo scimpanzè e tutti gli altri animali, escluso l’uomo. Perché un milione di anni fa l’uomo tutte quelle cose belle come il riscaldamento, il pc e il resto, non le aveva. Si è dato da fare e, mentre lo scimpanzè passava il tempo a spidocchiarsi, lui cercava di costruirsi una casa, dei mobili e tutto il resto. E se oggi lo scimpanzè continua a passare il tempo a spidocchiarsi, magari in uno zoo, non è a causa della cattiveria e dell’egoismo dell’uomo. E allora perché? Scegliete voi. Se siete credenti vi può bastare la Bibbia (per sicurezza, ho scelto una edizione della C.E.I.) Genesi,28:  “Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra.” Se non siete credenti, atei o agnostici che siate, allora non avete problemi. Partite da Darwin, l’evoluzione della specie e tutte quelle belle cose lì. E, a proposito del panda in via di estinzione, io un’idea per salvarlo dall’estinzione l’avrei. Serviamo una bella tagliata di panda nei ristoranti, magari in quelli più cool. Vedrete che subito la moda prende piede e saranno avviati allevamenti intensivi per i panda, così come oggi capita per i maiali, costretti immobili, su lettini, per ingrassare più velocemente. E, così come per il maiale, nemmeno più i panda correranno il rischio di estinguersi.

AUGUSTO NOVALI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La tirannia delle anime belle.

Se ne vanno in giro per il mondo pervasi di luce, investiti da un’aura di saggezza e conoscenza dalla quale ti senti investito al loro passaggio. Lo sguardo fiero, dritto davanti a sé, non deviano mai lo sguardo, né sopra né sotto, né dentro, né fuori. La loro verità è così assoluta, così lampante, che solo gli stolti o i cattivi possono fare a meno di condividerla. Sia che si tratti di difendere la Paperella selvatica del Mozambico, sia che si tratti di difendere l’ambiente dal tremendo inquinamento che producono le cicche, che quei peccatori impenitenti dei fumatori si ostinano a gettare in ogni dove, la loro determinazione, il loro “impegno”, sono inattaccabili. Così come i Beati Padri della Santa Inquisizione non si perdevano in dettagli come la salvezza del corpo, che per la salvezza della tua anima era meglio bruciare, anche le anime belle non si perdono dietro inutili dettagli. Che vuoi che sia la miseria di centinaia di coltivatori di nocciole, che vedono i frutti del loro lavoro divorati da quelle simpatiche, intoccabili, bestiole che sono al primo posto nei loro interessi? Di esseri umani, a questo mondo, ce n’è fin che vuoi, anche troppi, quasi sette miliardi. E’ inevitabile che alcuni siano poveri o si impoveriscano per un’epidemia, una carestia, un terremoto o a causa di un raccolto divorato da un’orda di simpatici, sacri, animaletti. Ma se il ghiro sparisse… insomma, i ghiri non sono miliardi. Bisogna difenderli!
Non c’è attività o settore in cui le anime belle non intervengano, a difesa dell’ambiente, della specie, del sistema e così via. E’ grazie a loro se oggi non si assiste più a quell’orribile spettacolo del fumatore incallito che se ne va beato per strada, porta il suo cane a spasso liberamente e, se gli scappa, trova una riprovevole costruzione in cemento dove poterla fare. Oggi, grazie alle anime belle, il cittadino esemplare se ne va in giro con il suo bravo astuccio per depositarvi le sue cicche, con paletta e sacchetto per raccogliere le deiezioni del suo amato cagnolino e, se proprio gli scappa, va in cerca di un bar, spende pochi euro per un caffè di cui non ha nessuna voglia e, imbarazzatissimo, chiede poi al gestore, timidamente: “Scusi, c’è il bagno?” augurandosi, in cuor suo, di non sentirsi rispondere: “Sì, ma mi spiace è guasto.” In compenso, le nostre cittadine non sono più imbruttite da quelle orrende costruzioni, quali erano i vespasiani e, men che meno, esistono più quegli orrendi postriboli di depravazione e vizio che erano i bagni pubblici.
Più che una missione, la difesa dell’ambiente, degli animali, del sistema e dell’ecosistema, è una vocazione. L’anima bella non smette mai di pensare a come migliorare questo mondo che, non sarà mai abbastanza ricordarlo, non ci appartiene ma ci è dato in prestito, per lasciarlo alle future generazioni. E così, pare, ci sono tecnici che stanno studiando un piccolo aggeggino, che va posizionato, non vi dico dove, collegato ad un piccolo sacchetto, che raccoglierà i liquidi che il nostro adorato Fuffi, ancora adesso, rilascia tranquillamente sui muri delle strade, durante la sua passeggiata. Quando tornerete a casa, svuoterete il contenitore delle cicche nel secco, il sacchetto con i liquidi organici andrà svuotato nel wc mentre il sacchetto con relativa cannula va nel secco. Darete una lavata alla paletta e… e qui vado sempre in crisi: le deiezioni solide di Fuffi vanno nell’umido o nel wc? Il sacchetto, essendo sporco, va nel secco. Forse. Però… pensate a quanti alberi delle foreste dell’Amazzonia bisogna abbattere per fabbricare quei sacchetti!
Mentre passeggiavo per strada, leggendo la mia rivista preferita, m’imbattei in un articolo interessantissimo, un vero e proprio reportage, con tanto di foto, fase per fase. L’apposito ente protettore aveva operato un airone dal collo imbrunito della Prugnanesia. Il tenero animale era stato colpito da un sasso lanciato da un ragazzaccio e aveva un’ala spezzata. I valenti chirurghi dell’ente protettore lo avevano operato e lo avevano seguito, fino a completa guarigione! Ero così contento, così felice per questa bella notizia, che volevo condividerla con qualcuno. Smisi di leggere e, la persona più vicina a me, era un barbone, che dormiva sotto un colonnato, coperto di cartoni. Stavo quasi per svegliarlo, per dargli questa bella notizia, ma subito ci ripensai. Era bello grosso e magari non era prudente. Magari lui non era un’anima bella, in grado di condividere con me quella bella notizia. E sì, perché anime belle non si nasce, ma non tutti possono diventarlo. Avere la pancia piena, o avere qualcuno che si preoccupa di riempirtela, è sicuramente consigliabile, se vuoi occuparti del buco nell’ozono. Ma non è strettamente necessario. Così come non è strettamente necessario, ma aiuta, sicuramente, non avere grandi problemi di sussistenza, se vuoi dare un significativo contributo nella lotta per la sopravvivenza delle balene. Senza tirarla troppo per le lunghe, uno solo è il requisito necessario, per essere un’anima bella: una buona dose di narcisismo. Ovvio che anche altri fattori possono aiutare. Quello che gli addetti ai lavori definiscono “investimento oggettuale” è importante. Una piccola nevrosi che ti impedisca di scegliere appropriatamente l’oggetto può servire. Ma anche una banale difficoltà di relazione può servire. Anche se, io credo, il narcisismo è il fattore preponderante. E tanto più ce n’è, tanto più rifulgerai di luce. Luce che illuminerà il mondo, fino a che tutti capiranno che è sicuramente meglio arrivare al lavoro in ritardo, incazzato nero, dopo due ore di traffico, bus che non arriva, metropolitana in ritardo e iniziare la giornata già con il fegato marcio, piuttosto che andartene in giro con la tua vecchia panda inquinante, che contribuirà, irrimediabilmente, ad allargare il buco nell’ozono. Ma voi ci pensate mai alla tragedia del buco nell’ozono? Io non ci dormivo la notte! Fino a che mi sono deciso e ho demolito la mia vecchia Panda. Ho comprato una modernissima Euro 27, cinquemila di cilindrata, emissioni zero. Forse.
Negli anni sessanta-settanta fu emanata una delle prime leggi (se non la prima) contro il fumo. Riguardava esclusivamente i cinema. Non era una legge demenziale come quella approvata qualche decennio fa per i ristoranti e le pizzerie. Era una legge semplice che, in soldoni, obbligava i proprietari di cinema, teatri e simili, a dotarsi di un sistema di aerazione o di aperture nel soffitto per il ricambio dell’aria. Allora i cinema rendevano bene. Nella mia città, tra Gran Cinema Teatro e cinema di infimo ordine, ce n’erano più di duecento. Si andava da un biglietto di trecento lire per i cinema pidocchietti a biglietti da cinquemila lire per i Gran Cinema Teatro. Non ce ne fu uno (e così in tutto il paese) che spese una lira per adeguare le sale. Da un giorno all’altro, in tutti i cinema e i teatri d’Italia, comparvero cartelli “Vietato Fumare”. Da allora non vado più al cinema. Per principio. E da allora sono nati i primi esemplari di anime belle che poi, come tutti i fenomeni di caporalato (sì, perché l’Italia è un paese di caporali, alla Totò, per intenderci) è cresciuto a dismisura e le anime belle, oggi, sono una vera e propria tirannia. Così come, a meno che non sia proprio costretto per motivi di lavoro o di famiglia, non vado più in pizzeria. Una decina di anni fa, fu emanata una legge demenziale che, per far sì che si potesse fumare nelle pizzerie e i ristoranti, imponeva tutta una serie di obblighi, apparecchiature, allarmi e chi più ne ha più ne metta. Come prima, da un giorno all’altro, nelle pizzerie e nei ristoranti comparve il famigerato cartello “Vietato Fumare”. Smisi di andare in pizzeria e in ristorante fino a quando, chissà come, il gestore di una pizzeria, nella cittadina in cui abito, decise di attrezzare una sala fumatori, così come prescriveva la legge. Ripresi l’abitudine di concedermi la mia brava pizza di fine settimana. Ma durò poco. Sei mesi e poi la sala fumatori sparì. Quando gli chiesi perché l’aveva eliminata, lui, candidamente, mi spiegò che non era conveniente. “Vedi – mi spiegò – se tu fumi, con una pizza, una birra e un caffè, mi tieni occupato il tavolo anche per un’ora. Se invece non puoi fumare, allora mangi la tua pizza, bevi la tua birra, prendi il caffè e poi te ne vai al massimo dopo mezz’ora perché vuoi fumarti la tua o le tue sigarette.” Da allora non pranzo più fuori. Né pizzerie, né ristoranti, nemmeno per motivi di lavoro o di famiglia.

So che molti storceranno il naso o saranno irritati. Così come ho trovato irritante un post, oggi, su facebook. Una signora che lanciava una petizione, che prometteva di impegnarsi a fondo, perché sia istituito un 118 per gli animali. L’anima bella di turno è quasi scandalizzata dal fatto che un servizio simile ancora non esista. Io, in tutta onestà, proverei ammirazione, stima, rispetto, per chi, avendo tempo ed energie, si impegnasse perché il 118 per gli esseri umani funzioni e non capiti, come ancora oggi capita, che qualcuno muoia per un’ambulanza che non c’è o che non arriva in tempo. Lo so, sarò strano ma, nella mia scala delle priorità, l’essere umano è al primo posto. Ovviamente non sono nato ieri e capisco le difficoltà. Creare una moda, indicare una meta, sensibilizzare su un problema è molto facile, se si tratta dei diritti dei ghiri, o della pappardella papuasica dell’Honduras, o del buco nell’ozono. Se si tratta di impegnarsi per difendere i diritti delle persone… beh, questo richiede uno sforzo maggiore, e non tutti ne hanno le capacità o la forza o la voglia.

Del mercato e dello scrivere.

Nel dialetto napoletano esiste una sola parola, “o’ ggiurnalista”, per indicare due diversi mestieri. Allo stesso modo, con la stessa parola, quel dialetto indica sia il giornalista, quello che scrive gli articoli, sia l’edicolante, quello che vende i giornali. Nella lingua italiana questa distinzione è ancora utile, appunto, per indicare questa differenza. Ma nella realtà, serve ancora? Esiste ancora questa differenza? Io credo di no, o almeno, credo che questa differenza tenda sempre più a scomparire. Alcuni titoli di certa stampa, in questi giorni, in occasione dell’attentato di Parigi ad opera di terroristi islamici, ne sono la dimostrazione. Certi titoli non si fanno per dire di cosa si parla nell’articolo, o per dare una prima notizia sommaria ma, semplicemente, per creare scalpore e vendere copie. Di fatto, il giornalista che fa operazioni del genere, si trasforma da giornalista in giornalaio. Prove ancora più immediate e continue ne abbiamo, tutte le settimane, nei talk show, oggi tanto di moda. Per sapere di che si parla, di come si tratterà l’argomento e cosa si dirà, non è più necessario seguirli. Ti basta sapere chi sono “gli ospiti” che il conduttore ha invitato. Se, per fare un esempio, l’argomento della discussione ci interessa e ci piacerebbe sentire opinioni diverse, il confronto e tutte le cose che, nel preistorico dei talk show, erano lo scopo del programma, ti basta vedere chi sono “gli ospiti”. Se il conduttore, per dirne una, ha deciso di invitare un bravo storico dell’arte, che poi da storico dell’arte si è trasformato in prima donna dei talk show, diventando famoso per il linguaggio che farebbe vergognare uno scaricatore di porto e per le sue crisi isteriche in diretta, con in bella mostra tutte le vene che stanno per scoppiargli durante il suo attacco isterico… ecco, non è necessario seguire quel programma, perché sai già in partenza che la “discussione” sarà inesistente, che il personaggio è stato invitato solo per dare colore, per dare scandalo o, quanto meno, per vivacizzare un programma che, diversamente, il giornalista-conduttore non sarebbe in grado di poter gestire con competenza o in modo interessante o coinvolgente. Non è tutto qui, e non è solo questo, il male che ne viene al paese reale. Io non so se anche negli altri paesi del mondo, esiste questa distinzione tra “paese reale” e la controparte, che io definisco “paese lassù”. Due mondi che non hanno niente a che vedere, se non fosse per il fatto che il “paese lassù” condiziona, pesantemente, il “paese reale” del quale, in sostanza, al “paese lassù”, non gliene potrebbe fregare di meno. Cosicché oggi, per fare un esempio, potremmo, se ce ne fosse l’interesse, chiederci chi sono, che fanno, che pensano, come vivono e così via, i giovani oggi. Magari potrebbe essere interessante conoscere, di quando in quando, qualche scrittore tedesco, qualche cantante spagnolo, sapere qualcosa di più della società francese e così via. Ma niente. Tranne qualche periodico accenno, il massimo di informazione “altra” che riesci ad avere, sono i risultati del superbowl americano e un po’ di cose alla rinfusa sulle società angloamericane. Il giornalismo, quello vero, costa fatica e rende poco, e a volte può anche essere pericoloso, e allora siamo invasi dai giornalai che, non essendo “redditizio” l’argomento, si limitano, di quando in quando, a prendere atto della situazione, informandoci periodicamente dei giovani in fuga (non solo i “cervelli”!) verso altri paesi, dei “ragazzi” quasi quarantenni che ancora vivono con i genitori, dei no tav, dei black block e poco altro. Poco più di qualche nota di colore o di cronaca.
E’, più o meno, dalla caduta del muro di Berlino che si è cominciato a predicare di “mercato”, anzi, per la precisione, di “libero mercato”. E così è capitato che, lentamente, silenziosamente, la politica ha perso sempre più valore, sempre più credibilità, è sempre meno presentabile e, lentamente, silenziosamente, la parola “libero” non serve più alla parola “mercato”. Non serve più e il mercato, rimasto da solo, cresciuto in silenzio, lontano da attenzioni indiscrete, ha soppiantato la politica e, di fatto, da solo, oggi governa il mondo. In tutti i settori, in tutti i paesi. Oggi è l’economia che decide, non più la politica, ridotta al ruolo di ancella della finanza. E c’è differenza tra economia e finanza, anche se troppo spesso queste due parole si usano come sinonimi. E allora, poiché ho già scritto troppo in termini “politici”, vorrei semplicemente cercare di capire in che modo e in che misura, tutto questo condiziona la scrittura e lo scrittore. E a proposito di libero mercato, che ovviamente non esiste più nemmeno nell’editoria (vedi, per fare un esempio, i grandi raggruppamenti editoriali di questi ultimi mesi), la situazione attuale mi conferma sempre più nella mia idea, che lo scrittore non debba avere altra preoccupazione se non quella di scrivere di quello che sente, senza porsi altri limiti o fare altre considerazioni. Nemmeno il successo o l’ambire al successo ha senso, nella situazione attuale. Perché per avere successo, uno degli ultimi (in ordine di importanza) requisiti necessari è avere talento, avere cose da dire e saperle dire. Questo non basta più e quasi mai è un fattore determinante. Provate a scorrere le classifiche dei libri più venduti della settimana, del mese, o dell’anno. Ai primi tre, quattro posti troverete, quasi sempre, dei giornalisti o dei personaggi televisivi. In questa settimana, per guardare ai fatti, nei primi tre posti troverete Bruno Vespa, Alan Friedman, Fabio Volo. Nessuno di questi personaggi nasce come scrittore. Chi più, chi meno, ha semplicemente sfruttato le possibilità che gli venivano dalle loro carriere: politiche, nel mondo dello spettacolo o accademico e, arrivati al piccolo schermo, hanno pensato bene, giustamente, di trarne il massimo del vantaggio. Se unisci l’utile al dilettevole e, per fare un esempio, sei un bravo economista, giornalista e, grazie a questo, riesci ad apparire in televisione e farti conoscere da milioni di telespettatori… scrivere un libro è il minimo che puoi fare. E’ quasi inevitabile! Un’anima bella subito s’immagina che scrivi un libro di economia, che spieghi l’economia, o la politica e l’economia, e via di questo passo. Ma se non sei un’anima bella, hai senso pratico e hai l’accortezza di scrivere un libro sul politico più conosciuto del paese… bingo! Le xmila copie sono assicurate. A prescindere. Naturalmente non devi necessariamente essere una cima, un economista o un bravo giornalista per fare bingo, tutto questo non è fondamentale. Se, per dirne una, sei il Presidente della terza Camera del paese, cammini per i corridoi Rai da una vita, hai tutte le maniglie e gli ammanigliamenti possibili, tutto diventa più semplice. Scrivere libri, a questo punto, è inevitabile. Ti procuri il più grande editore del paese, ti fai pubblicare-sponsorizzare dalla tua azienda e voilà, il gioco è fatto! Puoi scrivere di tutto, così come ti pare e i libri che scrivi avranno assicurate xmila copie ad ogni uscita. Al massimo dello splendore, perché no, puoi anche diventare uno storico. Le xmila copie sono comunque sicure. E se poi tra venti, trenta anni a nessuno mai salterà il ticchio di comprare un tuo libro, che te ne frega, il tuo te lo sei assicurato! Oggi l’importante è apparire in televisione. Magari fai un po’ di gavetta, cominci con la radio, magari fai qualche tentativo in teatro, ti fai conoscere e… appena ti danno il tuo programma televisivo prendi il “volo” e anche tu entri a far parte, a pieno diritto, del club degli xmila. Ovviamente, sapete come funziona il sistema: io t’invito al mio talk show, tu vieni alle presentazioni del mio libro, io t’intervisto sulla Pappardella implume della Mongolia e tu presenti il mio libro, e così via. E’ notevole il fatto che, all’interno di questo sistema, in particolar modo se sei un politico, non sempre è necessario essere sulla cresta dell’onda. Se hai stabilito le tue relazioni in modo attento, l’effetto benefico della “vita di relazioni” si fa sentire anche dopo anni. E’ appena finita l’ultima persecuzione mediatica, durata poco questa volta (due, tre settimane) sull’ultimo libro del politico di turno. Ma è stata terribile. Un autentico fuoco di fila. Che fosse rai uno, due o tre, che fosse radio uno, due o tre, che fosse un programma politico, di satira, comico o drammatico, c’era lui, implacabile, che parlava, teneramente, del suo nuovo libro! Provate a quantificare, in termini economici, di vile moneta, quanto costerebbe ad uno sconosciuto scrittore, una campagna pubblicitaria del genere “Campagna Vespa”. Una cifra impossibile. Una campagna pubblicitaria del genere puoi averla solo gratis. Se hai una buona “vita di relazioni”. Per questo trovo assurdo e inutile l’abitudine, la scelta, di molti scrittori o aspiranti scrittori di successo, di ambientare a New York invece che ad Abbiategrasso le loro storie, solo perché è più trendy. O parlare di un argomento difficile in un modo, con una prosa, che attiri molti, senza scontentare nessuno. Se l’argomento che scegli è tosto, difficile, controverso, scriverne in un modo “politically correct” non assicura maggior successo solo perché accontenta tutti e non irrita nessuno. E ancor più, se non hai un minimo di “vita di relazioni”, è probabile che le cose che scrivi, anche se sono belle, se sono scritte bene, interessanti eccetera, non troveranno mai un editore disposto a pubblicarle, senza che tu debba dargli soldi. E allora, a questo punto, perché limitarsi, autocensurarsi, seguire le mode e magari non scrivere come e di cosa ti piacerebbe scrivere? Tutto questo non ha senso. Scrivere per il solo piacere di scrivere, di quello che ti piace e scriverne come ti piace, non ha prezzo. Per tutto il resto, come si diceva in quella efficace campagna pubblicitaria, c’è la “vita di relazioni”. Non che sia deprecabile una scelta del genere. Ma se avete un minimo di “vita di relazioni” che possa farvi sperare in una pubblicazione, magari di successo, allora bisogna avere un piano di lavoro, una “strategia vincente”. Lasciate stare la correzione e la ricorrezione spasmodica, a caccia del refuso o dell’apostrofo o dell’accento sbagliato. C’è in giro un esercito di maestrine con la penna rossa e blu che, implacabili, ve lo segnaleranno. Voi fate debita ammenda e correggete. Non perdete troppo tempo a sforzarvi di nobilitare il vostro scritto, introducendo elementi “filosofici” o di alto valore “culturale” se non sono necessari e-o funzionali al libro che state scrivendo. Chi compra il vostro libro o e-book lo fa semplicemente perché gli piace quello che scrivete e come lo scrivete, e soprassiede volentieri a qualche errore di sintassi, di grammatica o che so io. E se il grande giorno arriva e trovate la casa editrice che lo pubblica, ci sarà qualche addetto che sniderà tutti gli errori o i refusi che avete tralasciato. Ovviamente se è una casa editrice più o meno seria e sufficientemente attrezzata. A questo punto, per concludere e per chiarire meglio quello che penso, mi tocca tornare a Camilleri, al quale ho accennato in un mio precedente articolo. Non potrei, per come penso, definirlo “un grande scrittore”, nel senso aulico che spesso si da a questa definizione. Ma sono pienamente convinto che Camilleri sia un ottimo scrittore, tra i più bravi nell’asfittico panorama letterario italiano, e che il suo successo sia, ampiamente, più che meritato. Camilleri non si è costruito una “vita di relazioni”, che pure avrebbe potuto agevolmente organizzarsi, dal momento che ha lavorato in Rai per cinquant’anni, poco più, poco meno. E ci è stato, per tutti questi anni, non grazie alle maniglie e agli ammanigliamenti, ma perché era un ottimo sceneggiatore, soggettista. Ha fatto la sua gavetta e, prima di Montalbano, aveva pubblicato alcune cose con case editrici minori, si è interessato di teatro ed è stato uno tra i primi a far conoscere grandi autori stranieri nel nostro paese e… nemmeno quando se lo sarebbe potuto permettere si è fatto abbagliare dalla Grande Casa Editrice Pigliatutto. Continua a pubblicare con una casa “minore“ anche dopo il clamoroso successo della serie di Montalbano. E così via.
Conclusione? Forse tra venti o trent’anni ci sarà ancora qualcuno che entrerà in una libreria per chiedere se hanno un libro di Camilleri. Per tutto il resto, continuate a scrivere e… rilassatevi!

C’è stato un tempo in cui…

Molti di voi non ci crederanno, ma è vero: c’è stato un tempo in cui si poteva andare al cinema e godersi un film, comodamente seduti in poltrona, magari bevendo una bibita e fumando una sigaretta. E potevi fumare dappertutto, liberamente. Al ristorante, per fare un esempio, potevi gustarti in santa pace la tua sigaretta a fine pasto o tra una portata e l’altra. Poi, a partire dal sessantotto o poco dopo, le cose sono cambiate e molte cose che allora erano piacevoli, semplici o consentite, adesso non lo sono più. Era l’epoca in cui non esisteva il “privato” perché il privato doveva essere pubblico. Era l’epoca delle comuni, della condivisione, del “messaggio” e dell’”impegno”. Tutti dovevano essere “impegnati” e in qualsiasi forma di espressione doveva esserci il “messaggio” e così via. Nel bene o nel male, come per tutte le cose, ci sono state, e abbiamo ereditato, cose buone e cose meno buone. Non m’interessa (e non ne avrei i mezzi) fare politica o sociologia. A me interessano i libri, la scrittura e la letteratura, in generale (quella con la elle maiuscola, ma anche quella con la elle minuscola).
Seguivo, nei giorni scorsi, in un gruppo di scrittori su facebook, un piccolo scontro, provocato da uno sciagurato scrittore che si era permesso di descrivere una scena di sesso, senza fare alcun accenno all’uso del preservativo. Apriti cielo! A un certo punto, una delle interlocutrici attacca il solito pippone sull’impegno, sul messaggio, sul compito educativo (sì, avete letto bene: educativo!) dello scrittore e tutto il perepè perepè che ne segue. E mentre ormai il dibattito si trascinava stancamente, mi è venuto in mente Bukowsky. Se quella scrittrice, invece che scrittrice fosse stata un editore, al quale Bukowsky avesse sottoposto il suo manoscritto, oggi del caro Charles ignoreremmo perfino l’esistenza. Per fortuna, anche tra gli editori c’è gente illuminata.
Nella serie delle cose buone o meno buone, che da allora sono intervenute, metterei sicuramente, per le cose buone, Internet e il web. Sempre restando nell’ambito della letteratura e dei libri, internet ha dato a migliaia di scrittori, bravi o meno bravi, la possibilità di farsi conoscere. Prima dell’avvento di internet, lo scrittore che sottoponeva a varie case editrici il suo manoscritto, che veniva rifiutato, non aveva più nessuna speranza. Nemmeno la possibilità di farsi leggere e confrontarsi con il lettore, meditare sulle critiche, sui giudizi e così via. Il massimo della gratificazione era far leggere il proprio scritto ad amici e parenti. Oggi, grazie al web, tutti hanno una possibilità. Su Amazon, che è una multinazionale tra le più grandi al mondo per le vendite online, è possibile comprare libri e e-book e lasciare anche una “recensione cliente”. E qualunque scrittore può pubblicare e mettere in vendita, in pochi click, il suo libro o il suo e-book. Bello, vero? E’ una cosa buona. Ma, per restare all’argomento: qual è la cosa meno buona?
Probabilmente Amazon ha scelto male il termine. Invece di “recensione” avrebbe dovuto usare “giudizio”. Non è una questione di lana caprina, è un punto fondamentale. Riporto dal dizionario le due definizioni:
RECENSIONE: presentazione critica, in forma di articolo, di un’opera letteraria o scientifica pubblicata di recente;
GIUDIZIO: ogni affermazione che, superando la semplice constatazione di fatto, esprime un’opinione, un apprezzamento.
La differenza tra i due termini è sostanziale. Anche la mia cara amica, la casalinga di Voghera, così come facciamo tutti, tutti i giorni, esprime giudizi ed è capace di farlo. Ma non tutti sono capaci di scrivere una recensione, nei termini della definizione. Inutile aggiungere che la critica (la critica letteraria) è un’attività ancor più impegnativa. Mi piace sempre ricordare la lettera che Voltaire inviò a Rousseau, che gli aveva spedito una copia del suo ultimo scritto:
“Ho ricevuto il vostro nuovo libro contro la razza umana, e ve ne ringrazio. Non fu mai impiegata tanta intelligenza allo scopo di definirci tutti stupidi. Vien voglia, leggendo il vostro libro, di camminare a quattro zampe. Ma avendo perduto questa abitudine da più di sessant’anni, sento purtroppo l’impossibilità di riprenderla. Né posso mettermi alla ricerca dei selvaggi del Canada, perché le malattie a cui sono condannato rendono necessario per me un medico europeo, perché in quelle ragioni c’è la guerra, perché il nostro esempio ha reso quei selvaggi cattivi quasi quanto noi”.
Bello vero? Niente a che vedere con commenti, anzi no, recensioni, del tipo:
“Soldi buttati” “Brutto” “Noioso” “Prolisso” e simili. Nonostante il giudizio negativo, Voltaire riconosce a Rousseau l’intelligenza, la capacità, eccetera. E questo mi porta ad un’altra questione: il contenitore e il contenuto. Mi chiedo spesso se, e fino a che punto, il tema trattato debba o se dovrebbe, influire sul giudizio. Per tornare al vecchio Charles: cosa potrebbe scrivere un recensore Amazon su un libro, tanto per dirne uno, come “Compagno di sbronze”? Se fosse un moralista, un cattolico della domenica o uno impegnato, il peggio possibile. Ma tutto questo è giusto e, principalmente, serve allo scrittore? La mia risposta è: no.
Provate a immaginare se Dante Alighieri e la Divina Commedia fossero sconosciuti. E immaginate dei recensori come quelli appena descritti. Quale potrebbe essere la recensione? Una cosa di questo tipo, più o meno:
“Un’opera disgustosa, popolata da uomini nudi, che servono al poeta unicamente per dare libero sfogo a tutte le sue perversioni” Che ne dite, ci sta? Il problema è che raramente chi esprime un giudizio su un’opera letteraria, riesce a prescindere dai suoi gusti. Capita ai migliori critici, capita anche al recensore anonimo di Amazon. Per fare un esempio: chi decide se è quanto dev’essere lungo un libro? Un giudizio lapidario che ho letto su Amazon è: “Inutilmente prolisso, si poteva raccontare in molto meno delle pagine scritte.” Per quello che mi riguarda, potrei condividere questo giudizio anche per “I promessi sposi”, per dirne una.
Nel 1950 il Nobel per la letteratura fu assegnato a Bertrand Russel, che è stato anche uno dei maggiori filosofi e matematici del novecento. Scrisse molto e su diversi argomenti: scientifici, filosofici, morali e sociali. Sciaguratamente era un agnostico convinto e questo gli alienò le simpatie di tutti gli ambienti religiosi, cattolici e non. Era anche un pacifista convinto e, di conseguenza, amava poco gli Usa e la società americana, che definiva “grossolana e filistea”. E’ forse per questi motivi che la sua “Storia della filosofia occidentale”, una delle migliori storie della filosofia che siano state scritte, a mio parere, è praticamente sconosciuta nelle nostre scuole. A questo punto, è del tutto evidente che quando gli Accademici di Stoccolma decisero di conferirgli il Nobel per la letteratura, reputarono che il contenuto non dovesse influenzare il giudizio sul contenitore. Resta il tema dell’impegno, del ruolo “educativo” Uno scrittore deve essere “impegnato”? Deve “educare”? E’ questo un tema più delicato e complesso, che richiede molte puntualizzazioni e del quale magari tratterò un’altra volta.
E allora, in conclusione, quale dev’essere l’atteggiamento dello scrittore, rispetto alla critica, la recensione o il giudizio? Verrebbe voglia di pensare, banalmente, una frase di moda oggi: “Stai calmo e tira dritto”. E, sostanzialmente, dev’essere così. A patto che, con umiltà, sappia accettare e far tesoro delle critiche vere e che ritiene giuste. Delle altre, quelle dettate dall’invidia, dall’interesse, o semplicemente dall’ignoranza del recensore, può tranquillamente non tenere conto.
Augusto Novali